critica liberale, o della solitudine | di enzo marzo

PUBBLICHIAMO L’EDITORIALE DI APERTURA DEL NUMERO 200 DI CRITICA LIBERALE PROPRIO PERCHE’ RACCONTA LA STORIA DEL NOSTRO PLURIDECENNALE IMPEGNO.

In verità questa concezione [liberale] è metapolitica, … e coincide con una concezione totale del mondo e della realtà. … In essa si rispecchia tutta la filosofia e la religione dell’età moderna, incentrata nell’idea della dialettica ossia dello svolgimento, che, mercé la diversità o l’opposizione delle forze spirituali, accresce e nobilita di continuo la vita e le conferisce il suo unico e intero significato. Su questo fondamento teoretico nasce la disposizione pratica liberale di fiducia e favore verso a varietà delle tendenze, alle quali si vuole piuttosto offrire un campo aperto perché gareggino e si provino tra loro e cooperino in concorde discordia, che non porre limiti e freni, e sottoporle a restringimenti e compressioni».
Benedetto Croce
 
 
Semper diximus. Una strana esperienza, questa di “Critica liberale”, eccentrica e unica. Siamo arrivati al 200º numero dell’ultima serie del mensile. Ma partimmo alcuni decenni prima. Con un semplice ciclostilato (era il ‘68, bellezza!). Con ore e ore in uno scantinato a scrivere a mano gli indirizzi dei destinatari. Secondo la definizione di Vincenzo Ferrari che leggerete qui qualche pagina più avanti eravamo – per una brevissima stagione – la minoranza di una corrente di minoranza all’interno di un partito di minoranza. È vero, ma in questi decenni “Critica liberale” non s’è mai sentita isolata. Sola, ma non isolata. Già la scelta del nome era significativa. Naturalmente la sola parola “Critica” sarebbe stata così presuntuosa da far tremare i polsi, l’aggiunta “liberale”, che oggi può apparire naturale, all’epoca certamente non lo era. C’era stato il precedente della “Critica liberale”di Orsello negli anni ’50, ma totalmente fuori dalla nostra memoria ed esperienza. L’opzione “liberale” fu originale e polemica nei confronti della nostra generazione.
Alla fine degli anni ‘60 i giovani politicamente attivi erano quasi tutti comunisti o fascisti. I cattolici vivevano a sé in un’isola dorata che assicurava prebende future. La parola “liberale” era una parolaccia considerata impronunciabile dalla mediocre e parassitaria borghesia pentacolore e da quella rossa, che si dividevano i salotti e le pagine dei giornali. Sotto molti aspetti i giovani fascisti, essendo “il nemico”, partecipavano di più, semmai perché menavano le mani ma erano visibili. Noi liberali eravamo impantanati nella nostra malattia della “distinzione continua”, guardavamo oltre. Il vero conformismo giovanile si esprimeva nell’adesione alla Fgci. I giovani comunisti godevano di molti privilegi: erano all’opposizione, quindi lo spirito ribelle giovanile era soddisfatto, ma nello stesso tempo erano topi nel formaggio del potere culturale e al centro del cosiddetto “dibattito”. Leggevano libri che ora sono relegati in cantina, erano innamorati di autori francesi che ora fanno ridere. Molti di loro non possono non riconoscere di aver tracannato idee confuse, indigeste, pericolosissime. A noi sembravano già allora pazzi conformisti e presuntuosi. Molti di loro hanno fatto perdere all’Italia più di un decennio, sostituendo il pensiero col piombo. Ora in parecchi sono a destra della destra. Erano anche avvantaggiati dal fallimento dell’esperienza del centro-sinistra. Dimenticando che la sciagurata battaglia togliattiana contro la nascita del centrosinistra era stata una componente essenziale per l’indebolimento delle forze riformatrici dentro la coalizione di governo, il Pci aveva buon gioco nel sottolineare i danni della normalizzazione morotea. Noi, figuriamoci, eravamo talmente “folli” da criticare il centro-sinistra proprio per la perdita della sua spinta iniziale…
Dunque la sinistra liberale di “Critica” nacque con la consapevolezza drammatica di chi è straniero in patria, perché i due suoi fondamenti – “idiosincrasia verso il potere” e il “conflittualismo” – non erano né nell’agenda politica né nel dibattito culturale. Era l’epoca che sarebbe approdata nel compromesso storico e nelle ribellismo terroristico. La nostra era un’”altra ipotesi”. Assai minoritaria. Che la storia, ovviamente, ci abbia dato ragione non ci consola affatto. L’ipotesi riformatrice del nostro “Mondo”, di cui eravamo orfani, era fallita. E noi venivamo troppo tardi o troppo presto. Solitudine strana la nostra: per decenni non abbiamo trovato, né c’è adesso, una sponda politica decente, né risorse materiali che ci aiutassero. Il senso di caparbia solitudine si è scritto così nei nostri geni. Però se idealmente, per dirla alla Arbasino, scavalcavamo con agilità il fossato di Chiasso, e approdavamo in Europa, tutto il paesaggio si rovesciava ed era l’Italietta dei cattocomunisti di “Lotta continua”, dei fascistelli bombaroli, dello chic rosso, del provincialissimo compromesso storico, del Secondo Stato un po’ golpista e un po’ clericale ad apparire terribilmente arretrata e fuori dal mondo rispetto alla grande civiltà liberale che poco dopo sarebbe riuscita a mettere la parola fine al troppo lungo secolo ideologico. I nostri coetanei si ubriacavano con le massime di un vecchio criminale come Mao e non si accorgevano che nel loro paese non avevano ancora neppure il divorzio. Non si rendevano conto che il disastro epocale vissuto nel Novecento era stato causato da ideologie criminogene, e continuavano a baloccarsi con i loro residui.
Da allora è passato molto tempo. Le nuove generazioni oggi forse non possono rendersi pienamente conto di cosa significhi la solitudine politica e culturale, perché è stata costruita una società in cui non ha residenza neppure la politica. Abbiamo sofferto il progressivo tracollo del nostro paese, fino al limite estremo del berlusconismo. La parola liberale ha subito uno strano destino. È stata rivalutata dagli avversari di allora che però – aderendovi – credono che il liberalismo sia quella caricatura che loro immaginavano fosse. Vittoria Ronchey scrisse a metà degli anni 70 un libro sui “marxisti immaginari”. Bisognerebbe scriverne uno sui “liberali immaginari”. Veniva da piangere dalle risate assistendo alle baggianate di Bertinotti che sprofondato sulla poltrona di Vespa discettava del “liberale” Berlusconi. Ma tant’è. Moltissimi che erano convinti di essere mille volte più a sinistra di noi solo perché avevano ben assimilato l’opportunismo di Togliatti o perché ammazzavano (probabilmente su mandato dei servizi segreti) gente innocua, in questi anni ce li siamo visti indossare in fretta la marsina da maggiordomo e farsi pagare dal rag. Spinelli, come un’olgettina qualunque. Ugualmente, molti, immersi più o meno dignitosamente in gioventù nelle “fogne”, si sono definitivamente insozzati mettendosi a firmare le leggi scritte da Mediaset. Altri ancora sono passati da Trotskij a papa Wojtyla e a Ratzinger con una sola giravolta. Come i terroristi non riuscivano a individuare là dove stesse il vero potere (anzi lo servivano), così gli expiccisti sono condannati su fronti diversi a inseguirlo affannosamente. Senza vergogna. Non è neppure colpa loro: sono stati ammaestrati dall’accoppiata “opportunismo & cinismo”, non sanno vivere senza; ora che tutta la costruzione ideologica è caduta loro addosso non sanno a cosa credere fideisticamente e sono rassegnati a credere alla poltrona e a nulla più. E adesso su molti temi di libertà si trovano di gran lunga più a destra di tutte le destre europee. In ogni campo, a destra e a sinistra, non sono che degli “atei” & “devoti”1.
Tutto previsto, tutto documentabile, ma che ci facciamo noi dell’aver avuto ragione col “senno del prima” se quelle nostre due stelle fisse (critica del Potere e conflittualismo) non hanno fatto un solo passo avanti nella coscienza del nostro paese e delle sue classi dirigenti? Se il nostro paese non riesce entrare in Europa e fa da battistrada al populismo e alla disgregazione della coscienza politica?
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La borghesia anti-borghese
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Non ripeteremo, come disse una volta Saragat, che la responsabilità della sconfitta è del “destino cinico e baro”. La nostra sconfitta già fu dipinta da quel pictor optimus di Giacomo Leopardi, è descritta nei libri di storia delle scuole medie. Si sa tutto, ciò che non si riesce a capire è l’ottusità di una grandissima parte della cultura italiana che avalla a suo modo tutti i nostri vizi e giace supina, come se la nostra storia passata abbia emesso una condanna definitiva e irreversibile alla sudditanza al Papa-re e alla logica moderata e burocratica, ottusamente statalista e parassitaria. La rivoluzione cavourriana è naufragata nell’opportunismo delle classi dirigenti successive. Il filo rosso esilissimo ma resistentissimo che va dal Risorgimento fino al “Mondo”, passando per l’einaudiana “bellezza della lotta”, per il revisionismo rosselliano (non dimenticate che Carlo Rosselli era un grande borghese), per il liberismo antimonopolista e antiprotezionista di Ernesto Rossi, non ha trovato mai una sponda sociale e politica rilevante. È qui il punto clou anche della nostra esperienza. Il ceto di riferimento di un liberalismo moderno sarebbe dovuto essere la borghesia imprenditoriale. Ma in Italia la borghesia non ha maturato mai il senso dei suoi doveri storici. A dir la verità, il capitalismo italiano non si è fatto mai imprenditore, se lo fosse stato la politica avrebbe seguito… Il capitalismo italiano è stato ed è accattone. Ancora in questi giorni i quotidiani-maggiordomi di fronte allo scandalo Ilva strillano come oche per denunciare l’insorgenza di quella che definiscono “una mentalità antindustriale”. Come se la mentalità industriale fosse quella criminale dei Riva. Noi di “Critica liberale”siamo per un’economia di mercato. Crediamo fermamente al mercato, però vediamo il mercato non come un sistema realizzato ma come un’utopia che indica un sentiero bene infarcito di regole, e di regole e poi ancora di regole. Sui conflitti di interesse, sulla libera concorrenza, sugli assetti societari, sull’evasione, sui paradisi fiscali, sull’espatrio dei capitali, sulle imposte di successione, sui falsi in bilancio, sui monopoli, sul ripiano pubblico dei passivi privati, sul rispetto dell’ambiente eccetera eccetera. Il mercato in Italia è un sistema che oggi ha un nemico mortale: il grande imprenditore, e non certo il ragazzotto, complice involontario, che sfascia le vetrine e dà l’assalto ai bancomat. Il capitalismo in Italia si fa rappresentare dai Marchionne, dai Tanzi, dai Geronzi, dai Consorte, dai Ligresti, dai Berlusconi, dai Riva, dai bancarottieri fraudolenti, dall’attuale Mediobanca, da chi predica contro “lacci e lacciuoli” e nello stesso tempo attende solo alle regalìe statali e ai privilegi. Eccetera eccetera. Che hanno a che vedere questi con lo “spirito imprenditoriale” e con il liberalismo?
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“Libera volpe in libero pollaio”
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Con alcuni decenni di ritardo il turbo-liberismo è importato in Italia da un esercito composito: vi sono i rampolli di La Malfa (non il vero), quelli che in certi ambienti sono soprannominati “l’edera grembiulina”; gli Amerikani con l’orecchino; i piccisti inciampati sulla via di Chicago e scalatori domenicali di Mont Pèlerin; tangentarid’antan; ministri che hanno avallato le leggi ad personam più vergognose; la truppa An di Fini e le teste d’uovo della Ferrari; autorevoli esponenti della merchant bank dalemiana; persino manager pubblici. Il tutto sotto la coerente guida di Giannino, del Direttore per anni e anni del supplemento economico di “Libero”, giornale di imprenditori reprensibili e col record di foraggiamento statale e di arcorismo aggressivo. Al riparo ognuno, volente o nolente, dell’ombrello dell’ideologia berlusconiana. Il tutto appena in tempo con la fine della micidiale parabola del turbo-liberismo in una crisi economica mondiale rovinosa.
Il turbo-liberismo qui e altrove si propone come una rigida ideologia. E come tutte le ideologie ha i propri dogmi indimostrati e i suoi esiti catastrofici. Perché la realtà è alquanto restia a farsi dominare dalle idee ingessate. La rozzezza dell’ideologia del liberismo selvaggio è documentata anche dalla pretesa di voler identificare una teoria economica, in questo caso il neoliberismo, con una concezione del mondo molto ricca e complessa, il liberalismo. Ignorando che la questione è stata aperta e chiusa da quasi un secolo. Non resta che la sola convinzione dogmatica che le “mani libere e sregolate” possano sostituire meccanicamente un lento processo ordinato che si fa carico della valorizzazione dello spirito imprenditoriale e della redistribuzione della ricchezza. Né i problemi dello sviluppo né quelli della convivenza civile possono essere risolti con lo slogan del neoliberista nostrano: “libera volpe in libero pollaio”. Né riusciamo a immaginare come il mercato, per di più abbandonato a se stesso, possa produrre i “beni comuni e pubblici”. Urge una buona lettura di Keynes per rimediare ai disastri compiuti.
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Le liberaloidi voci del padrone & altre complicità
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Certo, rimangono i ceti medi riflessivi, la minuta borghesia delle professioni, i piccoli imprenditori, ma questi che armi politiche possiedono? Rimane una parte consistente della società civile che è allibita di fronte all’arretratezza e alla mediocrità della classe politica. Tuttavia questi protagonisti non riescono a esprimere organizzazioni politiche. Si devono accodare. Al massimo producono piccole enclave senza voce. Già, infatti non dimentichiamo che il sistema informativo italiano è infeudato al sistema di potere in mano ai padroni di cui sopra.
Abbiamo vissuto una stagione che ha fatto da cartina di tornasole. L’asservimento e la reticenza dei media nei confronti del berlusconismo ha visto pochissime eccezioni. Per il resto ha regnato sovrana l’ipocrisia degli ex-piccisti inciucisti e dei liberaloidi, come quelli del “Corriere della Sera”, che ossequiosi verso la ricetta missiroliana – “sempre fiancheggiatori fedeli del Potere, qualunque esso sia” – hanno difeso il “liberale” Berlusconi perfino nel momento della frantumazione del Pdl. Soltanto quando è cambiato davvero il vento, i liberaloidi hanno ripreso coraggio confidando sul ritorno al potere dei vecchi ceti dirigenti devoti alla Chiesa.
Il berlusconismo è stato una stagione troppo lunga e troppo devastante. È stato il frutto marcio della prima Repubblica che ha putrefatto l’intero paese assuefacendolo all’”eccesso di sfrontatezza antidemocratica”. Naturalmente, per noi di “Critica liberale”era fin troppo facile individuare nel berlusconismo l’assoluto contrario di tutto ciò a cui crediamo. Ci siamo impegnati a fondo nella nostra lotta, ci siamo incontrati con un grande maestro civile come Paolo Sylos Labini. Persino antesignani di altri movimenti di società civile, demmo vita a “Opposizione civile”. Sconsolati, poi, vedemmo i Girotondi offerti gentilmente da Moretti ai Ds di Fassino. Impacchettati e infiocchettati, e suicidati. Per dovere patriottico non mancammo di informare continuamente i politici europei su quanto accadeva nel nostro Paese. Per anni ci portammo il marchio infamante di “demonizzatori”, perché denunciavamo senza requie le malefatte del regime che potevano essere constatate facilmente anche da un bambino di sei anni, ma solo se non prezzolato. Nacque nell’ambiente di “Critica liberale” nel 2001 il famoso Appello di liberali e azionisti – il nostro presidente onorario Bobbio in testa – contro Berlusconi, che vide l‘immediata replica di un contromanifesto di “cerchiobottisti” più o meno liberaloidi, quasi tutti di provenienza di estrema sinistra più o meno comunista. Il tutto elegantemente pubblicato su un quotidiano del Cavaliere difeso. Fu quello il punto più basso raggiunto da una parte consistente degli opinion leaders che contano. (E ancora oggi non abbiamo sentito alcun ripensamento critico da parte loro). Per molti anni quegli stessi liberaloidi hanno continuato ad ammannirci la favola bella di un Berlusconi propugnatore di un “liberalismo di massa”, il cui stupendo programma del 1994 avrebbe trasformato l’Italia nella più liberale delle società anglosassoni. Programma mai realizzato evidentemente perché Berlusconi si è trovato con le mani legate da quei pochi “demonizzatori” impenitenti che si ostinavano a considerare un mafioso assassino come Mangano non propriamente “un eroe” e che giudicavano un po’ disdicevole un Capo di governo inquisito per aver fatto corrompere giudici e avvocati.
Mentre lo stato di diritto era ridotto quotidianamente a pezzi, i liberaloidi strillavano su come la loro coscienza liberale fosse turbata dalla intollerabile proibizione intimata dai semafori rossi o da regole liberticide come i divieti dei limiti di velocità che impediscono di compiere liberamente massacri di altri cittadini. Mentre discettavano dalle cattedre di ogni tipo, piovevano leggi ad personam e il leader anticomunista si sbaciucchiava con Putin e Gheddafi. Ci dovrà pur essere qualcuno, un nuovo Zangrandi, che trascriverà le infamie liberaloidi e i loro silenzi complici in questo “lungo viaggio attraverso il berlusconismo”.
Ciò che ci ha indignato di più in questi anni, i nostri lettori lo sanno, sono stati certamente i grotteschi autori del degrado, ma soprattutto i loro complici. Il berlusconismo, essendo la quintessenza dell’antidemocrazia, certamente non poteva essere avvertito in tutta la sua pericolosità dalle forze politiche che non hanno mai posto come essenziali il costituzionalismo e lo stato di diritto. Per certi versi sembrava essere tornati agli anni ‘20 del Novecento, ai tempi in cui il massimalismo parolaio coincideva con l’opportunismo e giudicava Mussolini equivalente a Giolitti. Ancora oggi nella sinistra c’è qualche smemorato incosciente che dichiara che Monti è peggiore del Cavaliere. Così la classe dirigente expiccista e rifondarola è stata la nostra bestia nera per anni e anni: D’Alema, Bertinotti, Veltroni sono stati i tre maggiori colpevoli di una così duratura sopravvivenza del Cavaliere. La loro responsabilità nei confronti del paese entrerà nei libri di storia. Ma con loro, non meno coinvolta, è stata grandissima parte dei ceti politici di centrosinistra incapace di comprendere il fenomeno Berlusconi e di creare un’alternativa seria, imbevuti sempre più essi stessi della mentalità berlusconiana. La metastasi ha compiuto il suo corso e oggi in periferia ancor più che al centro i politici di centrosinistra troppo spesso sono assolutamente identici e intercambiabili con quelli di centro-destra. Ancor meno sorpresa ci ha procurato la politica di sostegno da parte della Chiesa cattolica: da sempre la gerarchia vaticana non fa mancare il suo appoggio a dittatori, anti-democratici o mascalzoni vari. Non poteva fare eccezione.
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Il progetto di un liberalismo critico
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Non essendo questo un testo programmatico, e avendone scritti e riscritti anche troppi (l’ultimo su ”il partito che non c’è, ancora” è leggibile sul sito della Fondazione), si può trascurare l’elenco dei temi e dei valori che ci caratterizzano da decenni. Ripetiamo soltanto che il laicismo (è nostro il “Manifesto laico” del 1998), il federalismo europeo, le continue battaglie sui diritti civili e delle minoranze, la difesa dello stato di diritto sono “Critica liberale”. Il tutto inserito in un progetto complessivo che affonda le sue radici nel liberalismo anglosassone che da sempre considera inscindibili l’attenzione e la tensione verso la libertà individuale e l’impegno riformatore per l’equità sociale. Un liberalismo, il nostro, che rigetta lo Stato etico e pretende una società sempre in movimento, dedita alla autocorrezione, consapevole dell’inevitabilità del potere ma della necessità del suo frazionamento, che pone come valori fondanti della Modernità la divisione dei poteri, il conflitto regolato tra individui e tra gruppi, la consapevolezza scettica che tutto è opinione e nulla è verità. Forse influenzati dalla lettura gobettiana di Gaetano Mosca siamo diffidenti nei confronti dell’ipocrisia democratica e confidiamo di più nei meccanismi in grado di imporre o facilitare la circolazione e l’alternanza dei ceti dirigenti. Abbiamo voluto continuare con le nostre modeste forze il disegno originale del “Mondo” pannunziano e risolvere una volta per tutte gli ormai anacronistici contrasti tra la tradizione crociano-einaudiana e quella salveminiana, azionista, rosselliana. In entrambe il liberalismo è qualcosa di più complesso, non si limita né al liberismo né al costituzionalismo perché è un‘idea del mondo, una mentalità, una concezione movimentista (Croce usa la parola “svolgimento”) e conflittuale dei rapporti umani. È la società aperta, ma non solo quella teorizzata dalle cattedre, ma quella che è capace di trasformarsi in coerente pratica politica quotidiana. Carlo Rosselli ci avrebbe definiti «concreti liberali moderni».
In tutta la nostra azione siamo stati favoriti certamente dal trasloco, armi e bagagli, dei liberaloidi “collaborazionisti” che, per fare i ministri e i servitori di un monopolista corruttore, hanno dovuto abbandonare persino il campo della tradizione liberale italiana più moderata, passando da Einaudi e Rossi ai Tea Party dell’estrema destra americana, dal liberismo antimonopolista alla tragicomica caricatura del reaganismo.
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Elogio della politica
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Il berlusconismo e l’opposizione cucinata in salsa inciucista ce l’hanno messa tutta per sradicare la politica dal cervello degli italiani. Hanno fornito e forniscono quotidianamente mille giuste ragioni al qualunquismo nazionale. Il ceto politico attuale quasi integralmente è arroccato a favore dei suoi privilegi e della corruzione. Nello stesso tempo è paralizzato dalla consapevolezza di non “rappresentare” più i cittadini. È consapevole che non gli rimane che la “missione” di reggere il più a lungo possibile, prima di essere travolto. Per ora l’alternativa visibile è il populismo becero, ma non è detto che siamo condannati alla morte della politica. A noi e a tutti gli uomini di buona volontà tocca tornare al vecchio mestiere, mai abbastanza apprezzato, della “distinzione”: restaurare i principi e le regole; distinguere tra le istituzioni e gli uomini che quei principi e quelle regole infangano ogni giorno.
Tessendo l’elogio della politica, dopo tutto, confermiamo la ragione sociale di “Critica liberale”, da sempre “impresa” incapace di tenere separata la riflessione teorica dall’azione pratica. Anche se – non certo per nostra responsabilità – in solitudine. Un impegno politico come il nostro, con un fondamento liberale, moderno, riformatore avrebbe dovuto trovare uno sbocco in una “sponda” organizzata. Ma questa non c’è mai stata. “Alleanza democratica” è stata una bolla di sapone soffiata da trasformisti professionisti; l’ ”Ulivo”, ben più serio, da subito si è ridotto alla somma dei difetti del professionismo politico di ex-democristiani e degli ex-piccisti. Troppo spesso corrivo con il berlusconismo. La tradizione socialista ancora dopo vent’anni non è riuscita a elaborare il lutto e a riallacciarsi al socialismo europeo sconfessando almeno le pagine più nere del craxismo terminale. I radicali meriterebbero un discorso a parte, lo abbiamo scritto più volte: usciti puliti dalla Prima Repubblica avrebbero potuto costituire davvero l’alternativa liberale. È stata l’occasione storica. Hanno scelto invece di tradire le loro radici per farsi peones del Padrone. Hanno tradito la loro intelligenza mostrando di credere alla “favola bella”. Ora sono solo precursori e testimonianza vivente di tutti i danni che arrecano il personalismo politico e una organizzazione partitica totalitaria. Una misera fine.
Certo non è colpa nostra se la sinistra italiana ha una composizione che non ha uguali in tutta Europa. Nelle singole campagne politiche, sia per il laicismo, sia per una effettiva libertà di stampa, sia per i diritti delle minoranze, sia contro il berlusconismo abbiamo trovato alleati dovunque, a destra come a sinistra. Ci interessava e ci interessa l’obiettivo. Ma lo stesso trasversalismo non può essere applicato alla politica generale. Lì è necessario “distinguere” con cura.
Il nostro elogio della politica non è stato mai astratto. Non ci siamo fermati all’esaltazione di principi e valori liberali, li abbiamo testimoniati fin dall’inizio nella stessa forma organizzativa della Fondazione e della rivista. Abbiamo anteposto a tutto la nostra libertà e l’abbiamo sempre conservata religiosa-mente. “Critica liberale”, credo, è l’unica Fondazione che non ha mai ricevuto finanziamenti determinanti né da privati né dallo Stato. Si è fondata sul volontariato spontaneo e sull’opera intellettuale di centinaia di persone prestata solo per il piacere di scrivere e per il dovere di fare politica. In tutta Europa siamo l’unica Fondazione italiana riconosciuta come “liberale”. I risultati ottenuti sono assolutamente sproporzionati alle risorse impiegate. Gli errori compiuti sono soltanto nostri,ma non dobbiamo dire grazie nessuno. Ai tempi di “Opposizione civile”, assieme ad altri, rifiutammo anche un consistentissimo “aiuto” finanziario che ci veniva offerto. Pazzi? No, saggi, perché ci saremmo ridotti a lavorare per interessi altrui. E proprio quest’esempio vorremmo trasmettere alle nuove generazioni. Non tutto è merce, non tutto è monetizzabile. Abbiamo visto anche troppi amici che al dunque, se l’editore o il sostenitore hanno tirato la corda, sono stati costretti a rientrare nei ranghi e pagare il proprio successo limando, aggiustando, contraddicendo le proprie idee.
La libertà di pensiero è un bene prezioso, perché il pensiero senza libertà assoluta non è pensiero, non è piacere. Va custodita a costo di rimanere relegati in un cono d’ombra, in solitudine, ma sentendosi cittadini d’Europa.
 
NOTA
Per non generare equivoci, si precisa che “Critica liberale” ha sottolineato incessantemente l’abissale differenza , sia per il mondo comunista sia per la Chiesa cattolica, tra le due gerarchie così ciniche e adoratrici del potere, e le rispettive masse di “fedeli” che credono davvero in valori sbandierati ma non praticati dai loro capi.

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